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Politica

Petrolio. Guidi travolta si dimette. Renzi da Boston accoglie, ma ora teme sul referendum no triv

Agf
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Non un minuto di più sulla graticola. “Caro Matteo, credo necessario, per una questione di opportunità politica, rassegnare le mie dimissioni da incarico di ministro”, scrive Federica Guidi. Il messaggio parte dal Mise a sera per raggiungere Matteo Renzi a Boston, tappa del viaggio del presidente del Consiglio negli Usa. Renzi accoglie: in questo pomeriggio di linee telefoniche roventi tra Roma e Boston ha fatto chiaramente capire che questa storia andava chiusa al più presto. Troppo pericolosa perché è una storia che parla di petrolio e trivelle mettendo il governo in cattiva luce a due settimane dal referendum ‘no triv’ del 17 aprile, a pochi mesi dalle amministrative e anche a una settimana dalla visita dello stesso Renzi in Basilicata (a Matera il 7 aprile), cuore dell’inchiesta giudiziaria dell’antimafia che ha trascinato Guidi fuori dal governo.

"Sono assolutamente certa della mia buona fede e della correttezza del mio operato” premette Guidi nella sua lettera di dimissioni a Renzi. “Sono stati due anni di splendido lavoro insieme. Continuerò come cittadina e come imprenditrice a lavorare per il bene del nostro meraviglioso Paese". Il premier non rimpiange. Con la titolare dello Sviluppo Economico non ha mai avuto un buon feeling, il suo referente al Mise, dicono i suoi, è sempre stato Carlo Calenda, ex sottosegretario non a caso promosso ambasciatore dell’Italia per l’Ue. E ora il referente è Ivan Scalfarotto, successore di Calenda al Mise, non a caso al seguito del premier nel viaggio statunitense. Sia Scalfarotto che Renzi si chiudono nel silenzio quando il ciclone Guidi raggiunge Boston, esattamente al quartier generale del Watson Health dell’Ibm, dove nel pomeriggio (ora italiana) il premier firma un accordo da 150milioni di dollari per l’apertura di un centro nell’ex area Expo a Milano.

Da quel momento in poi, anche nella visita ad Harvard, Renzi non sarà più a tiro di microfono. Blindatissimo, al riparo dalle domande dei giornalisti interessati a carpire un commento su quell’imbarazzante intercettazione telefonica in cui Guidi rassicura il suo compagno Gianluca Gemelli, imprenditore indagato per traffico illecito di influenze, sull’approvazione di un emendamento importante per i suoi affari sul petrolio in Basilicata. Precisamente a Tempa Rossa, nel cuore della regione. Era il dicembre del 2014, discussione parlamentare sulla legge di stabilità 2015: l’emendamento sulla realizzazione di infrastrutture strategiche per portare il petrolio da Tempa Rossa alle raffinerie di Taranto avrebbe fruttato a Gemelli 2 milioni e mezzo di euro. “Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se... è d'accordo anche Maria Elena…”, dice Guidi al telefono con Gemelli. E ora al governo incrociano le dita in attesa di capire cos’altro uscirà sulla stampa dell’inchiesta potentina coordinata dalla procura nazionale antimafia.

“Siamo di fronte a una organizzazione criminale di stampo mafioso, organizzata su base imprenditoriale”, sono le parole usate in conferenza stampa dal Procuratore Nazionale Antimafia, Franco Roberti, per descrivere l’inchiesta che ha prodotto 5 arresti in Basilicata, 23 indagati tra cui Gemelli. Ipotesi di reato: traffico e smaltimento illecito di rifiuti del Centro Oli di Viggiano, altro centro lucano per l’estrazione di idrocarburi, dove sono anche state sequestrate alcune parti dell’impianto.

E anche il presidente della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti Alessandro Bratti, un Dem di Ferrara certamente non un anti-renziano, non è per niente sorpreso. E’ uno dei pochi Dem a parlare. Lo fa con Huffington Post: “Eravamo sulle stesse tracce e proprio ieri abbiamo deliberato come commissione di fare un sopralluogo in Basilicata dal 6 all’8 luglio sul traffico illecito di rifiuti sulla base di segnalazioni ricevute”, dice Bratti che a ottobre ha concluso la sua relazione sul ciclo rifiuti chiedendo al governo di rivedere la “strategia di estrazioni in Basilicata, regione dove il petrolio ha già prodotto inquinamento di falde acquifere”.

Per il governo l’inchiesta sul petrolio in Basilicata è una pentola a pressione di polemiche. Dimettendosi, Guidi ha eliminato il primo ostacolo. “Un atto dovuto, il punto è che il conflitto di interessi è la cifra di questo governo”, dice Arturo Scotto di Sinistra italiana. Ora per Renzi c’è da gestire il resto. Innanzitutto la campagna elettorale in vista del referendum del 17 aprile, appuntamento che divide il Pd. Il premier scommette sul non raggiungimento del quorum e si schiera sull’astensione, parte della minoranza difende la scelta di andare alle urne, il lucano Roberto Speranza schierato per il sì con le regioni e il comitato no triv che hanno chiesto la consultazione. Per non parlare dei vescovi: in molti schierati contro le trivelle, anche solo per effetto dell’enciclica papale ‘Laudato sì’. E poi tutta l’opposizione contro: M5s, Lega, persino una parte di Forza Italia. Insomma, anche la sfida referendaria di aprile è diventata impegnativa per Renzi, da qui la scelta di andare a Matera il 7 aprile, visita rimandata da tempo, adesso confermata anche per motivi di campagna elettorale.

I suoi sottolineano che ‘l’emendamento della vergogna’, chiamiamolo così, è stato poi modificato dal governo nell’ultima legge di stabilità per andare incontro alla sentenza della Cassazione che in autunno ha ammesso tutti i quesiti referendari sul petrolio. E di fatto ora quelle infrastrutture strategiche non sono più decise solo dallo Stato ma di concerto con le Regioni. E’ uno dei motivi per cui dei sei quesiti referendari richiesti in partenza, ne è stato ammesso solo uno. Altamente simbolico però e fonte di timori a Palazzo Chigi, soprattutto dopo il nuovo ciclone giudiziario, ottimo megafono per i referendari.

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