Il pericolo di una regressione democratica

Il pericolo di una regressione democratica
(ansa)

La destra postfascista si rifiuta di riconoscere l’antifascismo non soltanto per fedeltà alla propria radice politica ma anche perché sulla Resistenza si fonda il modello di Repubblica che i nostri governanti vogliono cambiare

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Non c’è solo una ragione identitaria nell’espulsione della parola “antifascismo” dal vocabolario della presidente del Consiglio. Così come non sono gaffes estemporanee le sortite del presidente del Senato sul mito fondativo della Carta. La destra postfascista si rifiuta di riconoscere l’antifascismo non soltanto perché resta fedele alla propria radice politica ma anche perché sulla Resistenza si fonda la Repubblica democratica che i nostri governanti vogliono cambiare. È sulle fondamenta che lavorano come tarli i propugnatori di una “democrazia decidente”, gli aspiranti rifondatori dello Stato italiano determinati a ridisegnare l’architettura progettata dai padri costituenti.

I propagandisti in pubblico confondono le acque: ma che importa agli italiani di fascismo e antifascismo? Importa moltissimo. È dalla lettura delle vicende storiche che dalla dittatura portarono all’Assemblea Costituente che dipende l’idea del paese che vogliamo. Il presidenzialismo passa anche di qua. Insieme a una diversa concezione della democrazia e dei diritti, della libertà d’informazione, dell’equilibrio di pesi e contrappesi.

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Nella storia della Repubblica l’attacco al paradigma antifascista ha sempre coinciso con momenti di regressione democratica o con disegni di rifondazione dello Stato. La revisione del giudizio sulla dittatura risale ai tempi della guerra fredda, quando con i processi ai partigiani rossi e la scarcerazione degli aguzzini di Salò viene messa in atto quella che Piero Calamandrei ha ribattezzato la “restaurazione clandestina”. Nel 1955, primo decennale del 25 aprile, nelle scuole italiane si celebra l’anniversario di Guglielmo Marconi, non la festa della Liberazione. Bisogna aspettare gli anni Sessanta e Settanta perché l’antifascismo torni a essere il collante di tutti i partiti democratici, il cui simbolo più luminoso resta nel 1978 l’elezione del Presidente partigiano: proprio quel Sandro Pertini ora espunto dalla toponomastica di destra.

L’assalto al paradigma antifascista ricomincia nell’era Craxi, in coincidenza con il progetto della Grande Riforma: nel discorso pubblico conquista spazio “la defascistizzazione del fascismo” (copyright Emilio Gentile), svuotato della sua ferocia nel confronto con il totalitarismo nazista. Il Renzo De Felice polemista, non lo storico, ha un peso in questa storia, nel dichiarare l’antifascismo un ostacolo alla costruzione della liberaldemocrazia. Ma è nel decennio successivo, dopo il terremoto del sistema dei partiti, che torna a infiammarsi la guerra delle memorie. La destra guidata da Silvio Berlusconi va alla ricerca di nuove fondamenta sulle quali edificare la seconda Repubblica. C’è bisogno di una nuova narrazione, largamente ispirata alle memorie rancorose dei neofascisti, per la prima volta al governo del paese. Le mani dei partigiani lorde di sangue ricevono nuova linfa grazie alla Tv, a ben orchestrate campagne giornalistiche di segno “neorevisionista”, a un’effervescente editoria con il contributo definitivo di Giampaolo Pansa. La parola d’ordine di questa stagione è “memoria condivisa”, che di fatto significa riconoscere pari dignità storica e morale a partigiani e repubblichini di Salò. Questa operazione avviene grazie alla solerzia di alcuni storici non di prima fila, tra gli altri Francesco Perfetti, nominato di recente dal ministro Sangiuliano presidente della Giunta centrale di studi storici. E con la ben più attrezzata complicità di intellettuali che amano definirsi liberali, come Ernesto Galli della Loggia, autore di un libro significativo di quella temperie in cui sostiene che l’8 settembre del 1943 rappresenta la morte della patria, non la sua rinascita grazie alla Resistenza.

Alla revisione storica non è estranea una sinistra arresa, specie quella postcomunista, precipitosa nel buttare via il bambino insieme all’acqua sporca (un caso a parte è quello di Luciano Violante con il suo calcolato e infelice elogio dei ragazzi di Salò). A difendere la tradizione antifascista restano soprattutto gli azionisti e i loro eredi, i Bobbio, i Galante Garrone, i Pavone, i Bocca, bersaglio in tarda età di veementi polemiche.

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Nel nuovo secolo, mentre la destra propone di cancellare l’anniversario del 25 aprile o di annacquarlo in festa contro tutti i totalitarismi, a sinistra s’allarga la zona di chi ritiene fascismo e antifascismo vecchi attrezzi arrugginiti. Quando Giorgia Meloni arriva alla guida di Palazzo Chigi, il paradigma antifascista vivacchia minoritario e piuttosto ammaccato, al riparo però di un formidabile bastione rappresentato dal Quirinale. Oggi è il presidente Mattarella a invitare a «una doverosa unità popolare sull’antifascismo», come ieri esemplari modelli di pedagogia civile sono stati Ciampi e Napolitano. Ma cosa succederà quando il potere di moral suasion del capo dello Stato soccomberà davanti al premier eletto dal popolo? L’Italia sarà ancora una Repubblica fondata sull’antifascismo?

Ecco perché la rilettura della storia ci riguarda tutti.

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